Quando si fa il nome di Emilio Salgari la mente vola alle
avventure di Sandokan, il pirata della Malesia, al ciclo dei corsari nelle
Antille e nelle Bermude, o in India. Lo scrittore veronese però scrisse opere
minori di uguale importanza per l’epoca. Al Polo Nord è una di queste. Salgari
ci porta a fare uno dei suoi viaggi straordinari, questa volta in un territorio
che alla fine dell’Ottocento rappresentava una meta da raggiungere, una sorta
di “pianeta” da conquistare. Allora infatti le esplorazioni avevano un impatto
paragonabile a quello che hanno avuto negli anni Sessanta e Settanta del
Novecento le imprese spaziali. Salgari racconta le avventure di due cacciatori
di lontre della Compagnia Russo-Americana, Sandoe e Mac-Doll, che vengono
catturati dal sottomarino Taimyr, la cui missione è quella di raggiungere il
Polo Nord. Il “pianeta” viene conquistato, ma sulla via del ritorno è in
agguato una tragedia. L’autore si giostra tra finzione e realtà, i fatti reali
servono da background per smuovere l’inventiva del maestro di avventure
letterarie, il quale si immagina che il cacciatore di lontre Harry Mac-Doil
venga a bussare alla porta della sua casa piemontese per chiedergli di
trascrivere le memorie dell’unico equipaggio che riuscì a raggiungere l’estremo
settentrione del mondo. Salgari rievoca qua e là Jules Verne e le spedizioni
del norvegese Fridthioff Nansen, quella di Salomone Augusto Andrèe e la tragica
missione del capitano inglese Sir John Franklin del 1845, che dopo un anno di
navigazione rimase ucciso tra i ghiacci insieme ai 128 componenti
dell’equipaggio. Ma profetizza anche l’avvenuto passaggio a Nord-Ovest di Roald
Amundsen del 1906 e le successive esplorazioni. Lo scrittore veronese studiava
minuziosamente ogni dettaglio di mappe e fonti riuscendo così “a illudere il
lettore fino all’ultima riga sulla veridicità delle vicende narrate”, scrive
nell’introduzione Valentina Vivona. Come Verne anche Salgari non fece nessuno
dei suoi viaggi straordinari, ma è proprio questo aspetto a suggellare la forza
dirompente della narrazione salgariana.
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